Il racconto fotografico di un viaggio a Bihać e Velika Kladuša in Bosnia.
La mia avventura in BOSNIA è iniziata con una semplice telefonata. “Pronto Diego, c’è l’opportunità di andare in Bosnia per fare un reportage sulla nuova via dei migranti, ti va di venire?”
Eccitazione e timore mi hanno accompagnato per circa una settimana, in cui si susseguivano telefonate che smentivano e poi riconfermavano l’opportunità di andare, fino a poche ore prima della partenza.
Il 1 giugno, infatti, squilla il telefono: “Sei pronto Diego? Si parte dal porto di Ancona direzione Spalato, questa sera alle 20:00.” Non avevo pretesa alcuna, volevo osservare e se riuscivo, fare qualche scatto.
Convinto che esistevano etnie, lingue, confini e situazioni diverse, ho affrontato il viaggio cercando queste conferme. Ho fortunatamente conosciuto tantissime realtà, ho imparato ad aspettare, ma soprattutto ho capito che esiste una e dico una sola UMANITA’, divisa dai confini imposti da noi stessi. Confini e bandiere cari a tutti, persino agli stessi migranti che anche se fuggono da certi territori, in fondo AMANO le proprie radici, auspicando un ritorno, libero e di pace.
Il mio vero viaggio ha inizio a Sarajevo, dalla città vecchia, all’ombra dell’Hotel Holiday, sede di tutta la stampa mondiale durante la guerra, dal trafficato viale dei cecchini ed ai piedi della Avaz Twist Tower. Da sempre una città multi-etnica e multi-religiosa, dove al suo interno convivono tre diverse religioni: l’islam, il cristianesimo e l’ebraismo. Capitale e città più grande della Bosnia-Erzegovina era soprannominata prima delle guerre jugoslave la “Gerusalemme d’Europa”.
Da Sarajevo a bordo di un autobus di linea, mi sono recato verso nord, vicino al confine croato tra i due centri di Bihać e Velika Kladuša. Dopo infinite soste e circa otto ore di pullman, si giunge a destinazione. In queste cittadine a giugno 2018, i profughi crescevano di giorno in giorno, ma si parlava di circa 500/600 unità totali; ad oggi i numeri sono quasi quadruplicati, infatti vengono stimate 2.000 persone in continuo aumento, tra uomini, donne e bambini. Oggi la nuova frontiera dell’Europa dai confini chiusi a chi fugge da guerre e privazioni, si chiama Bihać e Velika Kladuša, quest’ultima proprio a due passi dalla Croazia. Velika è l’ultimo grande centro prima del confine, nel periodo di mia permanenza (6 – 8 giugno 2018), i migranti non avevano un luogo definito dove accamparsi, è stato necessario ricercarli nelle campagne ed in periferia, dove oltre ad aver occupato alcune rimesse di fortuna, un centinaio vivevano da pochissimi giorni in una tendopoli organizzata grazie agli sforzi dei volontari del posto, che oltre ad aver portato acqua corrente nel campo, erano riusciti a veicolare anche la corrente elettrica.
A Bihać comunque, l’urgenza di fare qualcosa è tangibile, sin dal momento che arrivi alla Bihać Bus Station, poiché non è insolito vedere i profughi camminare per la città con uno zaino in spalla o buste con dentro tutti i loro averi. La maggior parte di loro sono concentrati al “Dom” in una struttura, appena fuori dal centro abitato, immersa nel verde, che sarebbe dovuta diventare un collegio per studenti, mai terminata ed in condizioni precarie, dove a volte non mancano momenti di tensione. Altri bivaccano tra tende e container, oltre ad aver occupato ulteriori ed angusti edifici
dismessi. Le condizioni sono disumane, con pochissime prospettive: quella di superare in un modo o nell’altro la frontiera e continuare il cammino verso l’Europa; oppure il sogno di tornare indietro, godendo dei tre principi fondamentali che hanno mosso nel lontano 1789 la Rivoluzione francese.
A margine di questa cronaca-racconto, ci sono le mie sensazioni, gli aneddoti, i flashback, che secondo me è giusto riportare per evidenziare il mio personale approccio al tema e soprattutto la complessità dello stesso. Era la prima volta che mi mettevo veramente in gioco con una fotografia più impegnata, della quale si ammira sempre più il punto di vista di chi racconta. Ho cercato sempre di non eccedere in nessun modo, sia per una questione di rispetto sia per mio carattere. A volte ho fatto anche a meno della mia macchina fotografica, ascoltando e vivendo il momento, magari usando, dove ritenevo opportuno, solo il mio cellulare per creare meno distacco. Ho vissuto situazioni dove fotograficamente parlando, era semplice enfatizzare cercando la disperazione più acuta, ma dopotutto i migranti erano persone magnifiche, che in fondo volevano sorridere, così ho cercato di riprendere la loro “normalità” nello svolgersi della giornata.
[…] La signora con il piccolo al confine, che non sapendo una sola parola di inglese si era affidata ad una bimba lì presente nel campo di Velika Kladuša, che faceva da traduttrice con i responsabili della Croce Rossa Internazionale. Un inglese fluente, una pacatezza di una persona matura e tanta voglia di superare le difficoltà. Un modo di fare, che è riuscito ad
intenerire anche il nostro taxista, un uomo che qualche minuto prima aveva definito questi individui: criminali.
[…] Il ragazzo fotografato il giorno prima al DOM di Bihać, mentre stava facendo una video telefonata con suo fratello, ricoverato in un ospedale Sloveno, che per paura o timore non vuole riconoscermi.
[…] Le rimostranze di un gruppo di siriani, per ciò che era loro accaduto, ed un ragazzo pakistano che si avvicina dicendomi: “Ciao, sai… lo devi sapere, tutti abbiamo problemi, non solo loro. Magari se rimaniamo a parlare, (riferendosi a me) anche tu mi diresti i tuoi”.
[…] La bambina con la bandana rossa, sola, lì in quel campo organizzato da qualche giorno. Sicura di se, nelle movenze e negli atteggiamenti, che aiuta le mamme e gioca con gli altri bimbi. Ma pensierosa, troppo pensierosa, che appoggiata su una staccionata in legno, mi guarda per un attimo e chiede: “Have you got a family?”.
[…] Infine i due ragazzi siriani, ingegneri, due persone che sin dal primo momento hanno attirato il mio interesse. Sempre distaccati dal gruppo, curati per quello che potevano, e sempre con il sorriso stampato sul viso.
Due giovani partiti insieme dal loro paese, per conquistare una vita migliore. Sicuri di poterla trovare, stanno viaggiando da più di 4 mesi, un tempo tale a far maturare decisioni importanti. Mentre uno dei due continuerà il sogno dell’Europa, quindi dalla Germania tenterà di raggiungere il Canada; l’altro tornerà a casa aiutato da organizzazioni non governative, al fine di essere reintegrato poiché, come lui stesso ha scritto sul suo telefonino ed ha voluto che fotografassi: “Bosnia is very good but i like back my country”.
Reportage on-line anche su MeltingPot.org
*Un ringraziamento speciale a ENNIO BRILLI.